La pandemia non giustifica l’ostacolo alla possibilità per lo straniero di presentare una domanda di protezione internazionale

I giudici ritengono che la limitazione prevista dalla normativa nazionale non possa essere giustificata dall’obiettivo di tutela della sanità pubblica e, in particolare, dalla lotta contro la diffusione del Covid-19

La pandemia non giustifica l’ostacolo alla possibilità per lo straniero di presentare una domanda di protezione internazionale

‘Censura’ dei giudici nei confronti dell’Ungheria che ha indebitamente ostacolato la possibilità di presentare una domanda di protezione internazionale, subordinando tale opportunità al previo deposito di una dichiarazione d’intenti presso un’ambasciata sita in un Paese terzo. Così, in sostanza, l’Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del diritto dell’Unione Europea. I giudici hanno sancito che l’Ungheria, subordinando la possibilità di presentare una domanda di protezione interazionale, per taluni cittadini di Paesi terzi o apolidi che si trovano nel suo territorio o alle sue frontiere, al previo deposito di una dichiarazione d’intenti presso un’ambasciata ungherese sita in un Paese terzo e al rilascio di un documento di viaggio che consenta loro di entrare nel territorio ungherese, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in virtù della direttiva comunitaria. I giudici osservano che l’imposizione dell’onere, previsto dal diritto ungherese, di rivolgersi prima alle ambasciate ungheresi a Belgrado o a Kiev non comporta che debba ritenersi che tali persone si siano limitate a presentare una domanda di asilo diplomatico o territoriale presso una rappresentanza all’estero, in relazione alla quale la direttiva non è applicabile, e aggiungono che la condizione relativa al previo deposito di una dichiarazione d’intenti non è prevista dalla direttiva e contrasta con il suo obiettivo di garantire un accesso effettivo, facile e rapido alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale. E, secondo i giudici, tale normativa priva i cittadini di Paesi terzi o gli apolidi del godimento effettivo dei loro diritto di chiedere asilo all’Ungheria. I giudici aggiungono poi che la limitazione prevista dalla normativa ungherese non possa essere giustificata dall’obiettivo di tutela della sanità pubblica e, in particolare, dalla lotta contro la propagazione del Covid-19, addotta dall’Ungheria. Se è vero che gli Stati possono, in via eccezionale, sottoporre la presentazione di una domanda di protezione internazionale a modalità particolari, destinate a limitare la propagazione di una malattia contagiosa nel loro territorio, è necessario altresì che tali modalità siano idonee a garantire un siffatto obiettivo e non siano sproporzionate rispetto a quest’ultimo. E, ragionando in questa ottica, l’obbligo di spostarsi verso un’ambasciata all’estero - che espone così, potenzialmente, i cittadini di Paesi terzi o gli apolidi al rischio di contrarre il Covid-19, che potrebbe, successivamente, essere da loro diffuso in Ungheria - non può essere considerato una misura atta a contrastare la propagazione della pandemia. Per di più, la procedura istituita dall’Ungheria costituisce un pregiudizio manifestamente sproporzionato ai diritti dei richiedenti protezione internazionale di presentare una domanda di protezione internazionale sin dal loro arrivo a una frontiera ungherese. Inoltre, lo Stato ungherese non ha dimostrato che non potessero essere adottate altre misure che consentissero di conciliare adeguatamente, da un lato, l’effettività del diritto per ogni cittadino di un Paese terzo o apolide di presentare una domanda di protezione internazionale nel loro territorio o alle loro frontiere e, dall’altro, la lotta contro malattie contagiose quali il Covid-19. (Sentenza del 22 giugno 2023 della Corte di giustizia dell’Unione Europea)  

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