Riforma della giustizia: provvedimento illegittimo e Polonia censurata
I giudici sottolineano la necessità di evitare qualsiasi regressione, sotto il profilo del valore dello Stato di diritto, della legislazione dei Paesi in materia di organizzazione della giustizia, e in questa ottica gli Stati debbono astenersi dall’adottare norme che possano pregiudicare l’indipendenza dei giudici

I giudici si schierano con la Commissione Europea e sanciscono l’illegittimità della legge adottata nel 2019 dalla Polonia e che ne ha modificato le norme nazionali relative all’organizzazione degli organi giurisdizionali ordinari, degli organi giurisdizionali amministrativi e della Corte suprema. Nessun dubbio per i giudici: ragionando nell’ottica dello Stato di diritto, è palese come la riforma della giustizia polacca, risalente al dicembre del 2019, abbia violato il diritto dell’Unione Europea. I giudici sottolineano la necessità di evitare qualsiasi regressione, sotto il profilo del valore dello Stato di diritto, della legislazione dei Paesi in materia di organizzazione della giustizia, e in questa ottica gli Stati debbono astenersi dall’adottare norme che possano pregiudicare l’indipendenza dei giudici. Nello specifico, la sezione disciplinare della Corte suprema della Polonia non soddisfa il necessario requisito di indipendenza e di imparzialità. Se ne deduce, osservano i giudici comunitari, che la semplice prospettiva, per i giudici chiamati ad applicare il diritto dell’Unione Europea, di correre il rischio che un siffatto organo possa decidere in merito a questioni relative al loro status e all’esercizio delle loro funzioni, in particolare autorizzando l’avvio di procedimenti penali nei loro confronti o il loro arresto oppure adottando decisioni riguardanti aspetti fondamentali dei regimi di diritto del lavoro, di previdenza sociale o di pensionamento ad essi applicabili, è idonea a pregiudicare la loro indipendenza. Peraltro, in considerazione del carattere relativamente ampio e impreciso delle disposizioni della legge di modifica denunciate dalla Commissione Europea e del contesto particolare in cui tali disposizioni sono state adottate, esse si prestano a un’interpretazione che consente che il regime disciplinare applicabile ai giudici, nonché le sanzioni previste da tale regime, siano utilizzati per impedire agli organi giurisdizionali nazionali di valutare se un organo giurisdizionale o un giudice soddisfino i requisiti riguardanti la tutela giurisdizionale effettiva derivanti dal diritto dell’Unione Europea. Le misure in tal modo adottate dal legislatore polacco sono incompatibili, sanciscono i giudici comunitari, con le garanzie di accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge. Infatti, tali garanzie implicano che, in talune circostanze, gli organi giurisdizionali nazionali sono tenuti a verificare se essi stessi o i giudici che li compongono oppure altri giudici o organi giurisdizionali soddisfino i requisiti previsti dal diritto dell’Unione Europea. Peraltro, la circostanza che la legge di modifica abbia attribuito a un solo e unico organo nazionale (vale a dire la Sezione di controllo straordinario e delle questioni pubbliche della Corte suprema) la competenza a verificare il rispetto di requisiti essenziali relativi alla tutela giurisdizionale effettiva viola il diritto dell’Unione Europea. Il rispetto di tali requisiti deve, infatti, essere garantito in modo trasversale in tutti gli ambiti di applicazione ratione materiae del diritto dell’Unione Europea e dinanzi a tutti gli organi giurisdizionali nazionali investiti di controversie rientranti negli ambiti in parola. Invece, il controllo monopolistico istituito dalla legge di modifica, combinato all’introduzione dei predetti divieti e illeciti disciplinari, è idoneo a contribuire a indebolire ulteriormente il diritto fondamentale a una tutela giurisdizionale effettiva sancito dal diritto dell’Unione Europea. Infine, le disposizioni nazionali che impongono ai giudici di presentare una dichiarazione scritta indicante la loro eventuale appartenenza a un’associazione, a una fondazione senza scopo di lucro o a un partito politico e che prevedono la pubblicazione on-line di tali informazioni violano i diritti fondamentali di tali giudici alla tutela dei dati personali e al rispetto della vita privata. La pubblicazione on-line di dati relativi a una precedente appartenenza a un partito politico, nel caso di specie, non è idonea a raggiungere l’obiettivo indicato, diretto a rafforzare l’imparzialità dei giudici. Per quanto riguarda i dati relativi all’appartenenza dei giudici ad associazioni o fondazioni senza scopo di lucro, essi possono rivelare le convinzioni religiose, politiche o filosofiche dei giudici. La loro pubblicazione on-line potrebbe consentire a persone che, per motivi estranei all’obiettivo di interesse pubblico indicato, cercano di informarsi sulla situazione personale del giudice, di accedere liberamente a detti dati. In considerazione del particolare contesto delle misure istituite dalla legge di modifica, una simile pubblicazione on-line è, per di più, idonea a esporre i giudici a rischi di stigmatizzazione indebita, pregiudicandone in modo ingiustificato la percezione da parte sia dei singoli, che del pubblico in generale. (Sentenza del 5 giugno 2023 della Corte di giustizia dell’Unione Europea)